Che la Calabria sia una terra intrisa di storia, è cosa ormai nota. Più di quanto si possa immaginare. In questo scorrere del tempo, la “Storia” si è imbevuta di tante leggende e miti. Questi spesso si intrecciano con la storia dei luoghi e il sottile tra storia e leggenda resta sottilissimo. Altre volte sono evidenti tracce mitiche che sono state tramandate nel tempo, ma che restano affascinanti e ci dovrebbero far capire, come la Calabria sia spot di se stessa semplicemente raccontandosi. Abbiamo trovato in giro per il web e su alcuni libri, di autori Calabresi diverse leggende e miti, ne citeremo solo alcuni da noi ritenuti interessanti. 

Le bocche dell’inferno a Cessaniti

Nella periferia di Cessaniti in Provincia di Vibo Valentia c’è una zona conosciuta dalla gente del luogo come “vucchi du ‘mpernu” (bocche dell’inferno). Un luogo misterioso, dove nel terreno accanto alle radici di giganteschi ulivi secolari ci sono delle grandi cavità dalla forma circolare quasi perfetta, profonde più di quaranta metri, delle buche da cui escono fortissime correnti d’aria. Secondo la leggenda il diavolo dimora lì sotto e le correnti sono il suo respiro; secondo un’altra leggenda ci vivono dei piccoli folletti vestiti di rosso, molto dispettosi. Una terza leggenda narra che in questo luogo si nasconde Lamia, un mostro donna che si nutre di sangue umano. Si narra che queste bocche un tempo ingurgitarono tutto il centro abitato.

Pietra Kappa in Aspromonte

Una leggenda legata a Gesù ed agli apostoli aleggia in prossimità di un monolite ai piedi dell’Aspromonte. Si narra che Gesù camminava insieme ai suoi apostoli e ad un certo punto avvertirono un senso di fame. Gesù propose di fare una penitenza, invitando gli apostoli a prendere una pietra ed a portarla fin su in montagna. Tutti gli apostoli presero pietre abbastanza pesanti e si incamminarono verso la vetta. Solo Pietro prese un piccolo ciottolo e si avviò. Arrivati in cima le pietre si trasformarono in pane e mentre gli altri apostoli si ritrovarono con delle belle pagnotte, Pietro si dovette accontentare di un misero pezzo di pane, grande quanto il ciottolo che aveva trasportato. Per ricordare l’episodio Pietro chiese a Gesù di lasciare lì quella pietra e sfiorandola essa diventò gigante, al punto da ricoprire tutto il terreno circostante. Successivamente Pietro decide di imprigionare in quel masso la guardia che schiaffeggiò Gesù al Sinedrio. La leggenda narra che la guardia sia stata condannata a schiaffeggiare le pareti della roccia e che chiunque passi da lì sente i suoi lamenti e le sue grida.

Fata Morgana

Una delle più belle e affascinanti leggende che vi sono in Calabria è sicuramente questa. Chi è riuscito a “vedere” questa magia ne è rimasto colpito. E’ la Fata Morgana, un fenomeno ottico simile a un miraggio che si può osservare dalla costa calabra quando aria e mare sono immobili. La leggenda racconta che anche Ruggero I d’Altavilla fu incantato dal sortilegio. Per indurlo a conquistare la Sicilia, con un colpo di bacchetta magica la Fata Morgana gliela fece apparire così vicina da poterla toccare con mano. Ma il re normanno, sdegnato, rifiutò di prendere l’isola con l’inganno. E così, senza l’aiuto della Fata, impiegò trent’anni per conquistarla. La costa siciliana, vista da quella calabrese, sembra distare pochi metri. Si possono distinguere molto bene le case, le auto e addirittura le persone che camminano nelle strade di Messina. Il tutto avviene quando sulla superficie del mare, minuscole goccioline di acqua rarefatta, fanno da lente di ingrandimento. Il fenomeno prende nome dalla Fata Morgana della mitologia celtica.
Questa è un’altra versione del mito della Fata Morgana. Era agosto, il cielo e il mare erano senza un alito di vento, e una leggera nebbiolina velava l’orizzonte, durante le invasioni barbariche dopo avere attraversato tutta la penisola, un’orda di conquistatori giunse alle rive del mare Jonio nella città di Reggio Calabria e si trovò davanti allo stretto che divide la Calabria dalla Sicilia. A pochi chilometri sull’altra sponda sorgeva un’isola con un gran monte fumante, l’Etna, ed il Re barbaro si chiedeva come fare a raggiungerla trovandosi sprovvisto di imbarcazioni quindi impotente davanti al mare. All’improvviso apparve una donna meravigliosamente bella, che offrì l’isola al conquistatore, e con un cenno la fece apparire a due passi da lui. Guardando nell’acqua egli vedeva nitidi, come se potesse toccarli con le mani, i monti dell’isola, le spiagge, le vie di campagna e le navi nel porto. Esultando il Re barbaro balzò giù da cavallo e si gettò in acqua, sicuro di poter raggiungere l’isola con due bracciate, ma l’incanto si ruppe e il Re affogò miseramente. Tutto infatti era un miraggio, un gioco di luce della bella e sconosciuta donna, che altri non era se non la Fata Morgana. Il fenomeno si ripete ancora oggi nei giorni calmi e limpidi d’estate, nelle acque della riva di Reggio.

Scilla e Cariddi

Cariddi, nella mitologia greca era un mostro marino, figlia di Poseidone e Gea, che formava un vortice marino, capace di inghiottire le navi di passaggio. La leggenda la situa presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all’antro del mostro Scilla. Le navi che imboccavano lo stretto erano costrette a passare vicino ad uno dei due mostri. In quel tratto di mare i vortici sono causati dall’incontro delle correnti marine, ma non sono di entità rilevanti. L’espressione «essere tra Scilla e Cariddi», indica il rischio di sfuggire ad un pericolo per correrne un altro. Secondo il mito, gli Argonauti riuscirono a scampare al pericolo, rappresentato dai due mostri, perché guidati da Teti madre di Achille, una delle Nereidi.Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell’Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo. Scilla è una figura della mitologia greca, era un mostro marino. La leggenda vuole che dimori sotto il promontorio di Scilla, da cui uscirebbe di tanto in tanto scatenando spaventose tempeste e terrorizzando i naviganti che possono solo sperare nell’intervento di Glauco, trasformatosi in un tritone marino per amore della ninfa, che emerge a placare i venti ogni volta che infuria la tempesta. Nell’Odissea, Omero la descrive come un’immortale, figlia della dea Crateis. La indica come un mostro con sei teste e dodici gambe, che strappava i marinai dalle loro navi, quando, per evitare i vortici di Cariddi, si avvicinavano alla sua tana. Altre tradizioni la indicano come figlia di Forci e di Ecate. La fanciulla era amata da Poseidone, Anfitrite ne era gelosa ed avvelenò l’acqua nella quale si bagnava e la trasformò in mostro. Scilla viene talvolta indicata come la personificazione della piovra che vive nelle acque del Mar Mediterraneo. 

L’assedio del castello Normanno di Stilo

Secondo una leggenda, nell’anno 982, il califfo arabo Ibrahim Ibn Ahmad partì dalla Sicilia per nuove conquiste nella Calabria bizantina. Quando giunse in prossimità di Stilo, fu avvistato dagli abitanti della zona che, per ordine del “granduca”, su suggerimento di San Giorgio, protettore di Stilo, tutta la popolazione si rifugiò all’interno del castello normanno. Il califfo turco considerando che era quasi inaccessibile raggiungere il castello, avendo una sola via di accesso stretta e angusta, percorribile da una persona alla volta, in fila indiana, decise di assediarlo e attendere di poterlo conquistare “per fame” quando le provviste si sarebbero esaurite. Arrivò il tempo che le provviste all’interno del castello cominciarono a scarseggiare, aumentava così la preoccupazione per una resa ormai prossima. Il granduca, nella disperazione del momento, astutamente, tentò uno stratagemma per far desistere il nemico dal suo intento di conquista. Fece raccogliere il latte delle donne che avevano avuto dei figli da poco e con lo stesso fece fare una grossa ricotta che sparò contro gli Arabi appostati fuori le mura. Gli invasori si convinsero così che nel castello avessero grandi riserve di cibo se si permettevano il lusso di usarlo come proiettile contro il nemico e quindi l’assedio si sarebbe protratto ancora per molto tempo. Tra l’altro il califfò mangiò la ricotta ammalandosi di dissenteria che, erroneamente curata con decotti di salvia dai suoi medici, peggiorarono ulteriormente la malattia. A prendere il comando dell’esercito musulmano fu il nipote del califfo, Gabir, che decise di togliere l’assedio al castello e ritarsi. Il luogo in cui la ricotta che permise di liberare il castello dall’assedio Arabo fu chiamato “Vinciguerra”, denominazione tutt’oggi esistente.

L’oracolo di Capo Vaticano 

A lungo considerato luogo inaccessibile e sacro, Capo Vaticano, con il suo promontorio magico, si affaccia sul mar Tirreno nella provincia calabrese di Vibo Valentia. La magia salta agli occhi già dal nome: Vaticano deriverebbe infatti dal latino Vaticinium, che significa oracolo, responso, a rievocare una leggenda che vuole la punta estrema del promontorio abitata dalla profetessa Manto. A lei si sarebbero rivolti i naviganti prima di avventurarsi tra i vortici di Scilla e Cariddi e lo stesso Ulisse, scampato agli scogli del pericolo, avrebbe chiesto auspici a Manto circa la prosecuzione del suo viaggio. Ricorda le antiche origini di questo mito anche lo scoglio che sta davanti al capo e porta il nome di Mantineo, dal greco Manteuo, dò responsi. Sotto il promontorio si distendono spiagge di sabbia bianca e finissima, lambite da un’acqua cristallina. Tra le spiagge più suggestive Torre Ruffa, teatro di una triste e leggendaria vicenda. Rapita dai Saraceni, la bella e fedele vedova Donna Canfora si sarebbe gettata dalla loro nave al grido: “Le donne di questa terra preferiscono la morte al disonore!”. Proprio per onorarne il sacrificio il mare cangia colore ad ogni ora ad assumere tutte le sfumature dell’azzurro velo che ne cingeva il capo, mentre l’eco delle onde che s’infrangono contro la battigia altro non sarebbe che lo struggente lamento con cui Donna Canfora saluta ogni notte la sua amata terra.
Pagine piene d’amore furono invece dedicate a questa terra dal veneto Giuseppe Berto che scelse Capo Vaticano per dimora e definì questo tratto di litorale “Costabella”, molto contribuendo allo sviluppo turistico della zona. Un tempo arido e selvaggio, oggi il promontorio è un giardino incantevole, un affaccio naturale sul mare con una delle viste più sorprendenti sulle isole Eolie.

Il tesoro di Alarico 


Cupi a notte canti suonano
da Cosenza su’l Busento,
cupo il fiume li rimormora
dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ‘l fiume passano
e ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono
il gran morto di lor gente
(da “La tomba nel Busento” tradotta in italiano da Giosuè Carducci,
dalla poesia di August Graf Von Platen)

Narra le leggenda che, nel 410 d.c., l’esercito dei Goti guidati dal re Alarico, dopo aver saccheggiato indisturbato Roma, si mosse verso il sud Italia con l’intento di attraversare lo Stretto e spingersi verso l’Africa. Ma alle porte della città di Cosenza, la malaria colse improvvisamente il capo dei barbari che si congedò presto dal mondo e dai suoi soldati.
I Goti piansero sinceramente la sua scomparsa e decisero di rendergli onore secondo l’antica usanza che voleva che un condottiero venisse sepolto con il suo cavallo, l’armatura e i tesori raccolti nelle azioni di guerra. Non potendo permettere che l’immenso bottino frutto del sacco di Roma venisse ritrovato e che la tomba del loro re rimanesse in balia delle orde di predatori, i guerrieri Goti decisero di seppellire Alarico nel Busento, deviandone il corso. Utilizzarono centinaia fra schiavi e prigionieri per scavare la tomba del loro re in mezzo all’alveo del fiume e lo seppellirono nel suo grembo, abbigliato con l’armatura da parata, insieme al suo destriero e agli inestimabili ori e gioielli di Roma. Dopo di che, ricondussero le acque del fiume nel loro letto naturale e uccisero tutti gli schiavi e i prigionieri, in modo che nessun protagonista dell’ardua impresa potesse sopravvivere e far trapelare il segreto del sepolcro. Così, il luogo esatto della tomba di Alarico rimase per sempre un mistero e del leggendario tesoro nascosto tra le acque del Busento si favoleggiò per secoli, ispirando i versi di Dumas, Carducci e dei più grandi vati e dando origine ad una febbre che colpì, a più riprese, intellettuali, studiosi, politici e gente comune di tutti i tempi. Addirittura i Nazisti con Himmler si recarono qui alla ricerca del tesoro, senza ovviamente trovare nulla. Vi sono in ogni caso molte altre leggende che si sono intrecciate a quella principale. Fonti storiche ci dicono che nell’ XI sec Eremitani di Sant’ Agostino monaci Calabresi capeggiati dal vescovo Arnolfo II di San Lucido provenienti da San Martino di Pietrafitta trovano la tomba di Alarico e trovano dei documenti che avrebbero avuto a che fare la figura Gesù, e la Decima Legio Fretensis per intenderci la legione di cui faceva parte Longino, colui il quale trafisse il costato di Gesù sulla croce e il tempio di Salomone. Nel 1070 infatti si ha notizia di un gruppo di monaci calabresi nelle Ardenne ad Orval, esistono documenti storici che attestano il fatto. Ricevettero accoglienza e protezione oltre ad un vasto terreno sul quale venne costruita un abbazia. Quindi Storia o Leggenda? A queste latitudini le idee sono abbastanza chiare.

Fonti: scoprilacabria.com | calabriaonline.com | ascienzairiggiu.com |portalecalabria.com |misteryhunters.wordpress.com